Ovvero: l’ennesimo referendum che dimostrerà quanto questo strumento sia inconsistente nella creazione e/o potenziamento di lotte nei territori.
l referendum sulla ripublicizzazione dell’acqua del 2011 venne vinto nelle urne ma venne perso nei fatti: l’effettiva ripubblicizzazione del servizio idrico non avvenne e il risultato del referendum venne ribaltato dall’azione legislativa a tutti i livelli. Le bandiere esposte dai comitati per l’acqua dopo essersi accorti che il referendum non aveva cambiato assolutamente nulla nella gestione del servizio idrico – quelle con la scritta “il mio voto va rispettato” – suonano come una sconfitta più che come un rilancio della lotta. Anche perché il voto, in realtà, è stato rispettato: gli articoli abrogati dal referendum sono stati cancellati dalle leggi in questione. Ma questo è tutto. In sostanza, lo strumento cancella una legge o parte di essa, non stabilisce nessun principio. Se lo vogliono, governo e parlamento possono aggirare il risultato del referendum, come hanno fatto con quelli sul finanziamento ai partiti e sull’acqua. Le leggi le fanno loro. E le fanno secondo gli interessi loro e dei loro referenti nel mondo dell’industria e della finanza, non secondo la volontà e gli interessi dei cittadini. Quindi è lo stesso strumento del referendum, per come è concepito a livello costituzionale, ad essere strutturalmente limitato: del resto non possono essere sottoposte a vaglio referendario le leggi riguardanti trattati internazionali e i bilanci economici.
La favoletta della costituzione più bella e democratica del mondo la lasciamo volentieri ai comici riciclatisi in propagandisti governativi. Le significative lotte sociali degli scorsi decenni sono state vinte a prescindere dai referendum: la vittoria contro il fronte reazionario che si opponeva ad aborto e divorzio e che tentava di eliminare quelle allora recenti conquiste sociali tramite un referendum venne ottenuta fuori, e in parte contro, le urne. I movimenti sociali dell’epoca che intervennero nelle lotte di genere seppero costruire le condizioni per sconfiggere sul campo le forze reazionarie e costringere a delle riforme, seppur parziali e da ampliare e, nel caso dell’aborto, disattese dagli stessi che dovrebbero applicarla. La dimostrazione più palese che solamente una continua mobilitazione può conservare e ampliare le conquiste precedenti. Anche la vittoria referendaria contro il nucleare del 1986 fu solamente la ratifica di una situazione di fatto: i rapporti di forza costruiti dal movimento contro il nucleare avevano bloccato la costruzione di nuovi impianti e messo in crisi il funzionamento di quelli preesistenti.
La lotta No Tav, per esempio, è una delle lotte più significative degli ultimi anni: non ha mai preso in considerazione l’uso dello strumento referendario e ha sempre contato sulle proprie forze evitando di farsi intruppare in fallimentari marce alle urne, stessa cosa per le importanti lotte ambientali contro la criminale gestione dei rifiuti in Campania. Al contrario, la lotta No dal Molin, seppure avesse una base di massa non indifferente, uscì malconcia dal tentativo di prova referendaria in cui era stata intruppata da un auto-nominatosi ceto politico di movimento.
Inoltre l’attuale consultazione sulle estrazioni offshore di greggio e di gas si inserisce all’interno della logica della guerra per bande che sta sconvolgendo il PD e i suoi satelliti e non in contesti di lotte reali ambientali sul tema. I promotori di questo referendum sono gli stessi che, in altri momenti, venderebbero a prezzo stracciato qualsiasi concessione estrattiva alla cordata di imprese amiche di turno.
Ma soprattutto è un altro il grande danno che la propaganda referendaria, da ambo i lati, sta creando: la diffusione della falsa idea che la devastante crisi ambientale che stiamo vivendo sia legata solamente alla questione trivelle si/trivelle no e non al modo di produzione capitalista in cui giocoforza viviamo. La devastazione ambientale avviene a tutti i livelli ed è globalizzata: dai siti estrattivi nel golfo del Niger ai petrolchimici “nostrani” come Porto Torres, Gela, Marghera etc; dalle aree indigene del Sud America, attaccate dalle industrie petrolifere di Stato, Venezuela in testa, alle piane ricche di idrocarburi di scisto di USA e Canada; dai deserti mediorientali fino alle tante “terre dei fuochi” sparse per l’Europa, Italia compresa, o per il mondo. La devastazione ambientale globalizzata è la fase suprema della globalizzazione di un modo di produzione basato sull’espropriazione dei beni, sulla mercificazione di tutto e sull’accumulazione di capitale.
E non sarà certo l’ennesima passeggiata elettorale a bloccare una crisi che va affrontata nel modo più’ adeguato, e quindi radicale, possibile.
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